GREEN E AMBIENTE
26 novembre 2020

Anche se ci piacerebbe dire il contrario, il gas che vendiamo ha un’impronta ambientale. Come tutti i combustibili fossili, bruciando emette anidride carbonica, che si accumula nell’atmosfera e contribuisce al surriscaldamento globale. Questo cozza contro il nostro impegno nella lotta al cambiamento climatico: un obiettivo che inseguiamo promuovendo l’elettrificazione dei consumi, acquistando elettricità solo da fonti rinnovabili e sviluppando tecnologie che aiutano le persone a consumare meno. Fino a pochi giorni fa ci sembrava il massimo che potessimo fare, considerando che non esiste, purtroppo, un’alternativa sostenibile al gas naturale (ne parliamo sotto). Ma sbagliavamo.

 

 

Potevamo compensare la CO2

Cioè fare quello che molti fornitori fanno con l’elettricità – con la differenza che i modi per produrre energia pulita esistono, e che non ci sogneremmo mai di chiamare il nostro gas “100% green”, visto che non lo è. Da qualche giorno, però, è a “impatto zero”: questo perché, in collaborazione con LifeGate, abbiamo compensato le emissioni di anidride carbonica causate dalla combustione di tutto il gas che abbiamo venduto da quando esistiamo e che venderemo nei prossimi anni.


Lo facciamo tramite iniziative di “carbon offset”. Nel concreto, significa che acquistiamo e annulliamo crediti di carbonio generati da progetti di efficienza energetica che hanno un impatto positivo sull’ambiente. Ogni volta che annulliamo un “carbon offset”, compensiamo una tonnellata di CO2 immessa nell’atmosfera, cioè facciamo in modo che da qualche parte del mondo si riesca a risparmiare una quantità equivalente di emissioni rispetto a quelle generate dal gas che vendiamo. Ecco i due progetti che abbiamo già finanziato.

 

Il primo: “Nyagatare Safe Water Project”

Il distretto di Nyagatare si trova nel nord-est del Ruanda, ancora oggi una delle nazioni più povere del mondo. Le precipitazioni sono molto scarse, la siccità frequente e l’infrastruttura idrica deficitaria: da questo punto di vista, l’unica risorsa a disposizione degli abitanti sono i pozzi costruiti nei decenni scorsi dalle ONG e dallo stato. In molti casi, però, i pozzi si sono deteriorati al punto da essere inutilizzabili: ciò costringe le persone a percorrere molti chilometri per raggiungere stagni e fiumi da cui raccogliere acqua contaminata da batteri, che deve essere bollita per diventare potabile. Lo fanno con dei semplici fuochi da campo, alimentati a legna e a carbone, che hanno un enorme impatto ambientale.

Il progetto “Nyagatare Safe Water” si occupa di ripristinare questi pozzi, ognuno dei quali permette a cento famiglie di accedere ad acqua pulita e di evitare l’emissione di migliaia di tonnellate di CO2 all’anno. I benefici non si limitano alla riduzione dell’anidride carbonica: nel corso del tempo, l’iniziativa ha salvato oltre un miliardo di litri d’acqua potabile, pari a quella contenuta in 438 piscine olimpioniche, e la vita di centinaia di persone che, si stima, senza i pozzi sarebbero morte di diarrea.

 

Il secondo: “Energy efficiency, Joint Implementation”

Il cuore di questa iniziativa è la tecnologia “No-Till”, in italiano “semina diretta” (o “sodo”): un metodo di coltivazione che permette di piantare i semi sui residui del raccolto precedente, senza smuovere il terreno. Può sembrare poca cosa, ma il settore agricolo produce circa un quinto dei gas serra e l’aratura è la principale causa di queste emissioni, per via delle fratture che liberano l’anidride carbonica intrappolata nel terreno.

Il progetto “Energy efficiency, Joint Implementation” finanzia le attività della fattoria "Rise-Maksymko", che ha introdotto la semina diretta in Ucraina orientale, riducendo quasi a zero le emissioni di CO2 legate a questa fase del processo agricolo. Oltre al minore impatto ambientale, la tecnologia “No-Till” aumenta la capacità di infiltrazione dell’acqua e la quantità di humus nel suolo, cosa che porta a colture più resistenti alle malattie e agli eventi climatici avversi.

 

“Perché Lifegate?”

Perché non ci interessava investire in un’operazione di facciata: avevamo bisogno di un partner certificato che ci desse la sicurezza di finanziare dei progetti realmente utili, oltre che rispettosi di certi standard qualitativi, e che potesse aiutarci nel calcolo effettivo della quantità di CO2 da compensare.

 

“Perché non comprate il biogas?” 

Perché, a dispetto del nome, il biogas è molto meno “bio” di quello che si può pensare. Se è vero che viene prodotto facendo fermentare scarti vegetali, quando brucia emette comunque inquinanti nocivi, come il monossido di carbonio, l’ossido di azoto e l’anidride carbonica. Ma soprattutto, produrlo costa così tanto che l’unico modo per venderlo è mischiarlo al gas tradizionale; questo significa che se sottoscrivi un’offerta “biogas”, solo una piccola percentuale del combustibile che acquisti è effettivamente “verde”. Quando la tecnologia offrirà soluzioni migliori, saremo i primi ad adottarla; fino ad allora ci sembrerebbe scorretto mettere il biogas sullo stesso piano delle fonti rinnovabili, quindi abbiamo optato per il “carbon offset”.

 

“Ma acquistare certificati non era sbagliato?”

Dal nostro punto di vista, è sbagliato comprare certificati per fare “greenwashing”, cioè per fare finta di essere più verdi, soprattutto quando si potrebbe investire su fonti pulite all’origine. Ma dal momento che a oggi non esiste una vera alternativa al gas naturale, compensare le emissioni è molto meglio che non farlo. L’importante è essere chiari con le persone, spiegando bene cosa s’intende per “carbon offset” e “impatto zero”, evitando la confusione e la pubblicità ingannevole: speriamo di esserci riusciti.